"Non succede quasi mai a due come noi
di credere che sia possibile trovare
Un complice in questo disordine
Tracciare un’orbita nell’atmosfera
Amore mio la logica non è sincera
Chissà se amare è una cosa vera” -Cesare Cremonini, Logico
Questa è una lettera che non avrà destinatario, né mittente. È un lettera, senza scopo.
E parto dicendo che nessuno vuole inventare nuovi concetti, apparire come lo scrittore o la scrittrice del secolo: non posso scrivere per inventare qualcosa di nuovo, scrivo per riempirmi di parole, per stare bene con la cosa più preziosa che abbiamo. Anche se Pirandello diceva che è impossibile comprenderci con le parole, a volte penso che sia anche l’unico modo per comunicare.
Sotto ogni forma, le parole aiutano. Di tanto in tanto.
Cara te, potrò sembrare sdolcinata o rimbecillita a scrivere del mio primo vero amore, ma adesso, in un’altra città, senza notizie di lui, mi sento persa e ricordarlo mi fa sentire bene.
Ricordo di aver odiato quel periodo: la mia scuola era un disastro, avevo una cotta per un ragazzo di cui ignoravo persino il nome e non ero invogliata a far niente.
Mai come quella volta ho creduto che tutto potesse cambiare. Mai ho creduto ai cambiamenti, prima di quell’estate.
Io mi alzavo, andavo a scuola e l’unico motivo per cui ci andavo era che, ogni mattina, quel ragazzo mi aspettava all’entrata. Ogni mattina era lì sul cancello, quasi nascosto dall’ombra del ciliegio della scuola, ma non appena scendevo dall’auto spegneva la sigaretta con la suola delle scarpe e andava via.
Molte volte pensai che avrei dovuto affrontarlo, ma qualcosa nel suo volto mi faceva capire che a lui tutto quello stava bene, qualcosa di lui mi faceva capire che quegli sguardi gli bastavano, che quello strano filo sottilissimo che c’era fra me e lui era tutto quello che potevamo avere. E così, per quanto potessi odiare la mia scuola, aspettavo impaziente i quindici minuti di ricreazione per rincorrere con lo sguardo una persona che era indifferente al resto del mondo.
Comunque sia, andiamo avanti veloce e facciamo una piccola sintesi: restai in quella scuola per un intero anno per capire che quello non era esattamente ciò che volevo. Insomma, una ragazzina con il sogno di diventare avvocato non poteva starsene lì con le mani in mano solo perché un altrettanto ragazzino dagli occhi azzurri aspettava il suo arrivo per non rivolgergli mai neanche la parola.
Non ero sicura di voler abbandonare la mia carriera per uno stupido ragazzo. Cambiai ambiente appena arrivò l’estate. Non ero molto brava con la gente a quell’età, in realtà non ero brava a far nulla. Ero giustificata, però, nella mia testa, dalla mia timidezza e dall’adolescenza in sé. Ero un fiore in evoluzione, giusto? Ero giustificata sotto ogni punto di vista e si, mi cullavo molto su questo. Ero anche molto pigra perciò mia madre continuò ad insistere con questa strana idea di partecipare come animatore all’estate ragazzi, l’idea, però, da quanto io ricorda, non mi fece impazzire. Non reagì per niente bene, in realtà. Ho odiato quel posto per, diciamo trentacinque minuti: il tempo di ambientarmi.
Anche qui andiamo avanti veloce: in poche parole mi ritrovai in un ambiente completamente nuovo, con gente nuova e pensieri a me del tutto differenti da quelli che credevo di avere fino a poco tempo prima. Arrivai a Righio (un sorta di vacanza “spirituale”) con l’obiettivo di non pensare più a quel ragazzo. Alessandro, scoprì anche il nome. Volevo schiarirmi i pensieri in quel magnifico posto.
Il mondo è composto da sette miliardi di persone e, davvero, siamo la feccia della feccia. Bisogna dirlo.
Nell’intero universo non valiamo nulla: siamo solo dei punti dispersi nel vuoto. Punti.
Non mi piacciono i punti, mettono una fine. Nella vita, mai nessuno usa i punti, qualche volta le virgole, di rado si vedono punti e virgola, molto spesso vedremo punti interrogativi, ma punti mai.
Se la storia della mia vita dovesse essere composta dalla punteggiatura, credo che sarebbe ricoperta da punti di domanda e qualche virgola di rado. Il punto e virgola e il punto per me non esistono.
Come ho detto, quello era un posto che portava a riflettere. E io riflettevo, in tutta tranquillità. Ricordo di aver pensato che lì potevo abbandonarmi a me stessa, potevo lasciarmi andare e dimenticare Alessandro. Iniziava per me una disintossicazione dal mondo mondano e privo di senso.
Ricordo che il primo giorno mi misi a sedere lì al ruscello, credevo che quell’acqua parlasse: raccontava dei desideri della gente, raccontava dei baci che ha visto, raccontava dei solitari che venivano qui a scrivere, i poeti e musicisti a comporre. Credevo di essere pazza, ma Pirandello mi ha sempre insegnato a non aver paura della follia. L’ho sempre vista, in realtà, come una dote che non molti hanno. Non mi credo speciale per questo, ne vorrei esserlo. Ma mi piace. Così mi mettevo lì seduta a pensare alla vita del ruscello: lui è calmo e allo stesso tempo devastato, non ha idea di chi stia per arrivare ma è comunque pronto a percepire la sua storia, buona o cattiva che sia; il ruscello forse aspettava qualcuno disposto ad ascoltare, forse qualcuno prima di me lo ha sentito parlare, mormorare, fischiettare. Mi stesi lì vicino, ancora intenta ad ascoltarlo parlare. E lui continuava, non smetteva mai di raccontarmi di tutte le persone che erano state li, ma mai accennò a qualcuno che ascoltò lui, tutti avevano solo bisogno di sfogarsi e nessuno credeva che potesse farlo anche lui. O peggio, nessuno pensava che ne avesse diritto. E cosi continuò e continuò e anche se era tarda notte e quasi non respiravo più dal freddo rimasi lì ancora, ma poi il ruscello smise di parlarmi.
-fa freddo. Hai bisogno di una felpa?
Pensai che il ruscello si fosse offeso, o forse era solo timido.
Non riuscì a capire chi fosse, il buio non mi permetteva di vedere nessun lineamento di quella figura.
-hai interrotto il ruscello.
O forse pensava di poterlo annoiare con le sue storie. Oh, ruscello, dai, chi mai potrebbe annoiarsi ascoltandoti?
Avevo detto davvero una cosa molto stupida, non volevo apparire già come quella strana. Mi ero appena presentata a tutti come una normale ragazza di quindici anni che non parla con l’acqua. Ma questa era davvero speciale, ecco la mia scusa. Ero sempre pronta a trovarne una.
Poi, quando l’anonimo si avvicinò, riconobbi Francesco. Siamo riusciti a scambiare qualche parola appena arrivati, quando mi resi conto di non aver portato gli indumenti adatti a cinque giorni in montagna.
Capì della felpa e, solo per un secondo, immaginai Alessandro al posto suo, Alessandro che mi porgeva la sua felpa che profumava solo di Alessandro. Scacciai via quel pensiero e tornai nella realtà dove Francesco mi porgeva la sua felpa blu, la presi e lo ringraziai. Poi, quando gli animatori vennero a chiamarci per la buonanotte di gruppo, tornammo alla casa insieme.
-perché mai avrei dovuto interrompere il ruscello?
-nulla di speciale, solo un’affermazione stupida.
Qualcosa in quel ragazzo mi tranquillizzava, forse erano le sue labbra carnose che si, mi mettevano a disagio ma, più le muoveva, più mi sembrava di esserne ipnotizzata, quasi come se ne fossi dipendete.
Poi, quando arrivai in stanza, riuscivo a sentire il forte odore di Francesco provenire dalla sua felpa e ricordo di aver sorriso perché non era per niente simile al profumo di Alessandro.
Il giorno dopo ricordo che ci furono assegnati i “lavori” da svolgere. Io ero in squadra con Francesco e altre persone (di cui ora non ricordo, non giudicatemi, è passato molto tempo) e indovinate un po’: i bagni, mi toccò pulire i bagni. Mi arresi a quell’idea e andai nel bagno dei ragazzi di sotto a prendere la roba. Quel giorno, devo dire, è stato uno dei più belli lì a Righio perché mi divertì molto, ecco perché sto a raccontarvi questo piccolo ed insignificante aneddoto. Tornando a noi, bussai alla porta e proprio Francesco mi disse di entrare, ma quando lo feci lo trovai in boxer (che erano a righe nere e bianche), scoppiai a ridere e mi scusai con lui, facendo finta di non notare né il mio né il suo di imbarazzo.
-pensavo che fosse Danilo, scusami.
Risi così tanto che ancora ora ho mal di pancia. Adesso eravamo strani entrambi: lui mi avevo visto conversare con il ruscello ed io in boxer.
Comunque arrivò presto il momento dei “segreti”, le solite attività salesiane. Per ore sarei rimasta ad ascoltare Francesco che mi raccontava del suo stranissimo sogno, ma questo non poteva durare per sempre ed io non avevo voglia di parlare. Non ne avevo mai così tanta.
Credo che a lui tutto questo piaceva, forse il silenzio lo metteva a suo agio. Così si stese e aspettò che copiassi le sue azioni. Mi sdraiai vicino a lui e senza pensarci riuscì a togliermi di bocca qualche parola e qualche sorriso per le sue battute squallide. Sorrideva e il mondo sembrava sorridere appresso a lui. La sua gentilezza mi allontanava sempre di più da Alessandro. E, per quei due giorni, ho creduto di averlo lasciato a casa. Alessandro era rimasto in città, mentre Francesco era lì con me ad ammirare quella meraviglia di posto che molti ignoravano. Francesco era riuscito a colorare quelle due lunghe e piacevoli giornate.
-ho provato ad ascoltare il ruscello.
Disse dopo qualche minuto di assoluto silenzio.
-ah, sì?
-forse l’ho anche sentito, mi ha raccontato una storia, ma poi credo si sia scocciato.
-quale storia ti ha raccontato?
Il ruscello non si sarebbe mai scocciato, forse era solo troppo stanco per aver parlato così a lungo, forse non si fidava di Francesco, ma non era scocciato.
-mi ha parlato di un uomo che, pensando di essersi perso nei beni terrestri di questo mondo, trovò questo posto e pian piano riuscì ad apprendere il ruscello sempre meglio, allontanandosi sempre di più dai beni materiali.
Il ruscello non mi aveva parlato di quest’uomo. Forse sapeva che lo avrebbe fatto Francesco.
Apparirà anche strano dare una vita ad un ruscello, o ad un libro o a qualsiasi altra cosa, ma credo che se la meritino. Tutti hanno bisogno di sentirsi vivi. Soprattutto quando tutti la ignorano.
Tornai a parlare con Francesco del ruscello.
-perché gli altri non lo sentono?
-forse perché non sono davvero interessati a farlo.
Forse aveva ragione. Semplicemente, non erano molti interessanti a farlo.
-è una cosa molto egoista. Tutta quella gente va lì e il ruscello ascolta loro senza fiatare, ma quando è il ruscello a voler parlare nessuno lo ascolta.
Sorrise proprio in quel momento, era dolce da parte sua. Lo ricordo così bene quel sorriso, perfetto sotto ogni punto di vista. Non era perfetto solo perché forse, e sottolineo forse, mi stavo innamorando di lui, ma lo era perché nessun altro aggettivo poteva descrivere le sue labbra: andava a crearsi, solo quando sorrideva, un sottile taglio che divideva in parti completamente uguali il labbro inferiore roseo e pronunciato, il labbro superiore, invece, è meno pronunciato e perfettamente delineato, un po’ più scuro del labbro inferiore e va a creare due piccoli angoli che neanche si notano, ma io adoravo farlo. Era la cosa che più mi piaceva del suo sorriso.
Comunque, andando avanti, passiamo direttamente al quarto giorno e si, quello fu davvero il migliore. Il migliore in assoluto. Adoro ricordare quella sera.
Dovete sapere che ciò che stupisce ogni persona a Righio è il cielo: non esiste neanche un millimetro di blu, è così pieno di stelle da non sembrare notte. È lì che ti rendi conto che è davvero impossibile contare le stelle. Sotto quel cielo era tutto così stupendo, tutto così perfetto ed essere sdraiata lì sotto quella cascata di stelle con Francesco mi fece capire quanto ero libera di scegliere cosa farne della mia vita. Vidi una stella cadente.
-dovresti esprimere un desiderio.
Ricordo che quando dissi questa frase a Francesco andando ad interrompere quel perfetto e per niente imbarazzante silenzio, lui sorrise come se questo si fosse già espresso. Sorrisi anch’io e mi girai di nuovo verso il cielo.
Libera. Dalla città a volte si può dimenticare di dare un occhiata al cielo e questo mette in moto un modo di pensare per niente salutare. In città c’è chi va a lavoro, chi a scuola, chi dalla famiglia, chi ad un appuntamento, chi all’aeroporto ma il punto è che tutti, nessuno escluso, corrono, vanno di fretta e questo li porta ad essere violenti, stressati, malati. Il cielo, le stelle ti ricordano che c’è sempre una via d’uscita, un modo per calmarsi, una seconda possibilità. Le stelle quella notte mi avevano fatto capire che dovevo cambiare assolutamente scuola. Tornai a Francesco.
-è vero che ti piace un ragazzo?
Rimasi turbata. Sotto un cielo così perfetto l’unica cosa che voleva sapere era se mi piaceva qualcuno?
Avrei anche risposto, se solo avessi avuto una risposta. Alessandro. Non pensavo a lui da più di 48 ore, non credo che mi piacesse davvero. Ero solo spaventata. Il fatto che Alessandro non piacesse, nella mia testa, dava più spazio a Francesco. Non ero sicura di volerlo fare accadere.
Ero sicura però che anche a Francesco piacesse qualcuna. Ci sono alcune sicurezze che a volte ti sconcertano, delle sicurezze che ritenevi tali ma alla prima occasione queste si tirano indietro.
Fu proprio quello il momento più bello della nostra quasi relazione: Francesco mi vide a disagio, nervosa, molto più immersa nei miei pensieri del solito e, anche se continuò a ripetermi per anni che quel gesto lo fece solo per tranquillizzarmi, ci striassimo le mani uno nell’altra in un gesto che non fu per niente rapido ed indolore ma lentissimo e pieno di significati.
Fu davvero strano perché nella mia testa c’era un ragazzo che stava man mano scomparendo, e se fosse stato proprio Francesco la causa di ciò?
Ritornai nella mia caotica città con più domande di prima, più dubbi di quanti già ne avessi, ed il clima che mi circondava non era uno dei migliori; proprio per questo quando mi saltò in mente di cambiare scuola, afferrai quell’idea con gli artigli e non me la feci scappare.
Era da così tanto tempo che non mi sentivo sicura di qualcosa che mi catapultai su quell’unica sicurezza e studiai per un’intera estate solo per quella mia -all’inizio- stupida idea.
Nel frattempo, Francesco rimase molto vicino a me anche perché ormai era praticamente impossibile evitarsi dato che frequentavamo gli stessi posti.
Ricordo che i primi nomignoli che ci assegnammo furono “piccola” e “piccolo”.
E per quanto potessi volergli bene, in quel momento tutta me stessa era concentrata in qualcosa che non era lui e anche quando mi rivelò di piacergli decidemmo di rimanere amici, causa stessa classe per i successivi quattro anni.
“E se ci fossimo lasciati?” continuavo a ripetermi, continuavo a dirmi che non avevo il tempo per preoccuparmi di lui. Come avrei studiato, come sarei andata avanti con la mia “carriera” se mi fossi innamorata? Ma dimenticai di non considerare l’amore tenendo conto dei miei impegni, dimenticai di ripetere a me stessa “si è mai visto un innamorato non avere tempo per amare?”
Il tempo per amare, per leggere, per scrivere (cosa che ho imparato solo ora) è tempo rubato alla vita, eppure queste stesse cose dilatano il tempo per vivere. Nessuno ti regalerà mai del tempo per queste gioie eppure nulla mi ha effettivamente impedito di cadere nella trappola dell’amore; la vera domanda però è ed è sempre stata: ”mi concedo o no questa gioia di essere lettore, amante o scrittore?”.
Qualche mese ed avevo già dimenticato tutta la tranquillità di Righio e mi mancava il ruscello.
Iniziò la scuola e fui davvero grata a Francesco perché mi rimase vicino, mi aiutò ad ambientarmi, a divertirmi e soprattutto a rilassarmi. Era quello il mio punto debole: Francesco mi faceva ridere e riusciva a regalarmi momenti di quiete (per me essenziali e ormai quasi svaniti) assoluta.
L’anno passò in fretta e il rapporto fra noi due cresceva di giorno in giorno, avevamo già dimenticato ogni cosa di Righio , ogni sguardo, ogni piccolo segno di “cotta” da parte di entrambi era accantonato negli angoli più remoti del nostro cuore.
Il mio cervello sembrava non volersi riprendere, il mio cuore, il mio stato d’animo perenne continuava ad indicarmi una strada lineare e concisa che il mio io interiore si rifiutava di prendere. Vedevo mini omini vestiti di bianco nel mio cervello che cercavano disperatamente di fare ordine, ma era tutto un casino. E si sa, quando ci sono troppi casini, solo una cosa può farli svanire: l’amore.
“Non t’ama chi amor ti dice ma t’ama chi guarda e tace.” William Shakespeare
Voglio citare questa frase in questo mio piccolo racconto perché la trovo essenziale. Essenziale per capire la mentalità di un innamorato. L’innamorato è quella persona che vive solo grazie a quella persona che non la merita. L’innamorato è quella persona che per strada vive fra le nuvole e i ricordi di sguardi incompresi e mai più tirati in ballo. L’innamorato è quella persona che va in giro con le cuffiette e dimentica di dare inizio alle danze, è quella persona che dimentica lo zaino a casa prima di andare a scuola, quella persona che sembra fuori di testa, in un mondo tutto suo di unicorni e stelle cadenti, l’innamorato è chi guarda e tace.
Quella ero io, ero io proprio il 7 aprile di quello stesso anno. Quell’anno ricordo di essere stata follemente innamorata, ma ancor di più follemente incasinata e voglio lasciarvi così, raccontandovi com’è andata a finire.
O meglio, voglio raccontare com’è iniziata, com’è iniziata davvero.
Non ricordo come, ne quando io e Francesco ci siamo ritrovati lì, nel letto rumoroso e distrutto di uno schifosissimo albero, —quelli delle gite, avete presente, no?— con un odore di vidal che inebriava le mie narici, a giocare al “gioco dei nasini”. Non conoscete quel gioco? Credo fosse qualcosa che conoscevamo solo noi due, quello schifo che si è soliti chiamare “smancerie di coppia”, anche se noi coppia non eravamo e coppia ormai non siamo più, ma rimarrà comunque e per sempre qualcosa di nostro. Ci, o gli —poco conta perché fu uno bello sbaglio il nostro— scappò un bacio, il primo vero bacio di entrambi. E l’imbarazzo salì alle stelle. L’imbarazzo in quel momento ci sentenziò molto, rese vulnerabili entrambi e ci complicò la vita in modo assolutamente favoloso. Dovrei ringraziarlo quell’imbarazzo, senza di esso non ricorderei nulla di quel maledetto ragazzo: non ricorderei nulla dei suoi zigomi perfetti, delle sue labbra scolpite da Michelangelo in persona, le gote rossastre, il colorito della sua pelle, il tremolio della sue mani, la sue voce bassa e rilassante (senza tralasciare, seducente), so che è stupido ma spero vivamente di non dimenticare mai le sensazioni che provavo con lui, spero di non dimenticare mai il tono della sua voce e le sfumature esatte dei suoi occhi, spero davvero con tutta me stessa di innamorarmi nel modo in cui mi sono innamorata di lui, di come mi faceva sentire, spero di trovare qualcuno che sia totalmente diverso da lui e comunque riuscire a scorgere qualcosa di lui, spero di potermi sentire avvolta da quello strano odore che solo lui aveva, spero di risvegliarmi un giorno consapevole di averlo gettato nel dimenticatoio e sentire ugualmente il suo odore vicino a me. Mi completava e non mi pesa ammetterlo. Sono andata avanti, è vero, ma lui mi completava. In tutto, lui era il mio tutto, e credo che quel tutto mi sia dimenticato di riprenderlo quando lo lasciai lì, in balia dei suoi e i miei sogni.